La parrocchia in rete: le unità pastorali e gli immigrati

 di Domenico Sigalini (pubblicato sul sito della Chiesa Cattolica Italiana)

 

È in atto in Italia, ma anche in altre nazioni europee, un riassetto delle parrocchie che va sotto diversi nomi, tra cui il termine unità pastorali è il più comunemente usato. Il nome a molti non piace, alcuni tentano di inventarne un altro per togliere l’enfasi che dà l’impressione di aver trovato la soluzione di tutti i problemi, altri si adeguano senza dare troppo importanza al nome; noi lo assumiamo per la sua capacità oggi di dire le molteplici e ricche esperienze che il panorama della pastorale italiana presenta.

Che cosa sono le unita pastorali?

L’unità pastorale è un nuovo soggetto pastorale, nel senso di nuova figura di parrocchia,

- che è riferito a un’area territoriale con caratteri di omogeneità socio-culturale;

- in cui sono presenti più comunità parrocchiali;

- impegnato in maniera unitaria e organica in un’azione pastorale condivisa;

- espressa con ministerialità diverse;

- con la guida di uno o più presbiteri;

- ai fini di un’efficace azione missionaria ed evangelizzatrice e di risposta ai problemi del territorio;

- dotato di una forma strutturata e riconosciuta nel progetto pastorale diocesano.

Dunque è un soggetto ecclesiale che, nel suo DNA esprime la coniugazione armonica di tre istanze: la comunione, la ministerialità, la missione e il territorio, tipiche della chiesa fin dagli inizi, con la necessità di venire incontro al problema della diminuzione numerica del clero.

La domanda che ci poniamo, senza tante circonlocuzioni è: questo riassetto è una pura forma organizzativa fatta per ridistribuire lo scarso clero che esiste, oppure è una risorsa nuova per ripensare la parrocchia in un assetto più orientato alla prima evangelizzazione e alla missione?

L’impressione che si ricava dai vari progetti e definizione di questi nuovi assetti (cfr. Piacenza, Torino, Milano per le UP giovanili, Vicenza…) dà l’idea che il cambiamento non è un aggiustamento, ma una riforma. Per cui la tesi che io voglio sostenere, e che molti pastoralisti propongono, è che le unità pastorali, a certe condizioni, se sono ben impostate, possono definire un nuovo volto di parrocchia.

Questo esige che facciamo un breve percorso in cui cogliere l’evoluzione.

Gli albori delle unità pastorali

All’inizio delle unità pastorali fu una spassionata fotografia del reale che metteva in evidenza e in mutua responsorialità due elementi:

- il diffondersi di situazioni di emergenza create dal crescere di parrocchie rimaste senza preti residenti (il fenomeno è ancora oggi in crescita: Grolla evidenzia come dal 1993 al 1997 in Italia si registri un aumento di circa 900 unità);

- la necessità di correre ai ripari accorpando (aggregando, collegando) più parrocchie sotto la guida di un solo presbitero con il compito di organizzarsi in maniera da garantire alle parrocchie collegate tutti i servizi che la comunità cristiana è chiamata a offrire, soprattutto quelli sacramentali e quelli catechistici ad essi collegati.

A queste risposte pastorali fu dato il nome di “unità pastorali”.

Immediatamente le prime risposte dei pastoralisti sono state di presa di distanza, di attenzione a procedere per soluzioni tappabuchi, puramente efficientiste, scambiate per agenzie di servizi, con una impostazione verticistica e clericale. Si sono subito enunciati alcuni criteri:

Le unità pastorali

- devono essere inscritte in una nuova mentalità di Chiesa-comunione prima di essere considerate per la risposta che danno alle urgenze;

- hanno bisogno di essere immerse in una progettualità pastorale che le precede, sia essa diocesana o interparrocchiale;

- non sono “affare” solo di preti, ma di popolo di Dio;

- non devono essere motivate solo dalla scarsità di clero e avere come fine di assicurare servizi religiosi.

Il nuovo elemento decisivo da considerare è il territorio

Dopo le prime esperienze alcune buone, altre un po’ troppo improvvisate o volontaristiche perché iniziate sulla simpatia e collaborazione di alcuni presbiteri si è imposto un elemento determinante: il territorio, come insieme di prossimità umane che obbligano le eventuali unità pastorali a stare aderenti al territorio e a non far consistere la loro necessità o configurare la loro esistenza in astratte ragioni teologico-pastorali.

Questo obbliga sia a dare importanza alla appartenenza primaria, alle piccole parrocchie da cui si parte, agli elementi semplici del territorio che formano il tessuto di base delle relazioni di prossimità di una qualsiasi unità pastorale, a non cancellarle in una omologazione che impoverisce (non si distruggono insomma i mondi vitali di partenza), sia ad aprire gli occhi sull’evoluzione della omogeneità territoriale che può aiutare a configurare nuove unità pastorali.

Ecco per esempio, un elenco di omogeneità territoriali cui rispondono o possono rispondere oggi le unità pastorali:

- città, centri urbani con situazioni di omogeneità comuni a più parrocchie ivi costituite che quindi confluiscono in una unità territoriale;

- megaquartieri con problematiche assimilabili;

- centri storici di città o cittadine e/o centri che polarizzano realtà periferiche;

- comuni con frazioni entro un bacino unico;

- valli caratterizzate da frammentazione di abitazioni e paesi, ma con uguali problematiche sociali;

- categorie particolari di persone (cfr. giovani);

- più parrocchie già unite in solido con lo stesso parroco…

La realtà territoriale come dato sociologico, antropologico e culturale è il nodo che oggi dobbiamo mettere maggiormente a fuoco nell’offrire nuove forme di strutturazione alla comunità cristiana. Ci sfidano i nuovi comportamenti della gente, dei ragazzi, dei giovani, degli adulti, il nuovo mondo di relazioni, le reti di interazione tra le persone e le istituzioni, gli spostamenti di persone e cose, i tessuti comunicativi, le sfide economiche che caratterizzano uno spazio geografico, umano e spirituale. Non si tratta solo di spazi geografici, ma di modi di vita, di mentalità. Le nostre parrocchie così come sono distribuite e organizzate in questo territorio non sono più in grado di rispondere al bisogno di Vangelo che c’è tra la gente e non riescono più ad essere quel segno levato tra le genti. Le domande degli uomini sono tante e molto articolate, così che non è possibile rispondere a tutte e bene se non in una nuova comunione comunitaria. Le UP non saranno altro dalla parrocchia, ma una vita parrocchiale rinnovata, che non distrugge le piccole appartenenze, le comunità più piccole di cui è formata, ma le mette in una comunione evangelizzatrice. Questa operazione non è di tipo organizzativo, ma un vero ripensamento dell’essere comunità cristiana.

Nel territorio, gli immigrati

Nel concetto di territorio trova la sua collocazione tutta la situazione nuova che si è creata in questi anni con la presenza degli immigrati. Proprio per il loro modo di distribuirsi, non sicuramente legato alla parrocchia, ma a una città o a un bacino geografico o a un distretto, gli immigrati hanno bisogno di collegamenti oltre i confini della parrocchia, ma senza scardinarsi da essa. L’unità pastorale, che si costruisce proprio su questi nuovi tessuti di relazione, è la più adatta a seguire dal punto di vista della evangelizzazione le esigenze degli immigrati.

Infatti non hanno bisogno di servizi religiosi, ma di accoglienza; non hanno bisogno solo di sportelli per i loro problemi, ma anche di evangelizzazione; sono disseminati in un bacino che spesso segue più i loro tessuti di parentela, relazione, origine che le nostre suddivisioni geografiche anche se da esse dipendono; hanno bisogno non tanto di cura d’anime, ma di azione missionaria.

La risposta a questi bisogni esige assolutamente che i presbiteri e i laici che tengono viva una comunità cristiana abbiano inscritto nel loro modo quotidiano di agire pastorale il concetto almeno di rete, se non di unità pastorale. Esige che la missione sia aperta sul territorio e collegata con tutte le presenze cristiane che in esso operano.

Se il termine “unità pastorale” sembra troppo impegnativo, possiamo usare il termine pastorale integrata, ma siamo sempre al problema centrale: una parrocchia che agisce in collaborazione strutturata, definita, non lasciata solo alla buona volontà, ma a una prassi che quotidianamente vede interagire parrocchie diverse sotto una direzione definita e che deve rispondere al vescovo. Molti oggi tendono a dare valore di unità pastorale alla zona o al decanato o alla vicaria. Può andar bene, purché non sia il solito raccomandare di fare qualcosa assieme. Gli immigrati sarebbero i primi a sentirsi di nessuno e ad avere interventi di evangelizzazione legati più a occasioni che al bisogno vero di Vangelo che esprimono.

Del resto la nota CEI, pubblicata dopo l’ultima assemblea, “Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia” dice:

“L’attuale organizzazione parrocchiale, che vede spesso piccole e numerose parrocchie disseminate sul territorio, esige un profondo ripensamento. Occorre però evitare un’operazione di pura “ingegneria ecclesiastica”, che rischierebbe di far passare sopra la vita della gente decisioni che non risolverebbero il problema né favorirebbero lo spirito di comunione. È necessario peraltro che gli interventi di revisione non riguardino solo le piccole parrocchie, ma coinvolgano anche quelle più grandi, tutt’altro che esenti dal rischio del ripiegamento su se stesse. Tutte devono acquisire la consapevolezza che “è finito il tempo della parrocchia autosufficiente”. Soprattutto nella attenzione agli immigrati, aggiungo io.